lunedì 9 luglio 2012

UltraBalaton 2012 : Dall'inferno al...Paradiso.

I ringraziamenti generalmente si fanno alla fine,io questa volta li faccio anche all'inizio per un motivo molto semplice. Senza l'aiuto di due AMICI,questo articolo avrebbe avuto un altro sapore ed un altro colore. GRAZIE ALESSANDRO E EMANUELA PAPI.
“Ciro, come va?” “Manu, mi ritiro non c’è la faccio più. Sto morendo o forse sono già morto...”. “Sulla mia macchina non sale chi si vuol ritirare. Ti fai dare un passaggio da qualcun altro”. La macchina grigia, apparsa all’improvviso, accelera e se ne va. Lasciandomi solo in quell’oceano d’asfalto bollente.
...Vedo il traguardo azzurro, azzurro come il cielo e bello come il mare. Voglio solo lui. Eccolo, trenta, venti,dieci, cinque metri... “Siiiii!, urlo, m’inginocchio e guardo in alto. Inizio a piangere, ce l’ho fatta.
In questi due periodi così diversi e tra di loro agli antipodi, è racchiusa tutta la mia UltraBalaton 2012: La sofferenza atroce seguita da una gioia indescrivibile. Sono partito da Milano il giorno prima della gara insieme a Marco Bonfiglio (ultimo vincitore della Nove Colli Running), doveva essere un week-end tranquillo, ma si trasformerà ben presto in un fine settimana tragicomico.
Decolliamo dalla Malpensa già con mezz’ora di ritardo e atterriamo a Budapest. Dopo l’autobus e le due metro, ci rechiamo a prendere il treno che ci porterà in zona lago Balaton. Chiediamo informazioni a due ferrovieri che fanno finta di non capire. Girovaghiamo per la stazione domandando a destra e a manca, ma niente, sembriamo extraterrestri catapultati da un altro pianeta. Dopo un pò, fermi su uno stesso binario, troviamo due treni che vanno in due località diverse. Quello che parte prima dovrebbe essere il nostro e due passeggeri confermano la nostra ipotesi. Partiamo e, dopo mezz’ora di viaggio, il ferroviere che prima aveva fatto finta di non capire, ci dice, sogghignando beffardamente, che abbiamo sbagliato e che dobbiamo tornare nella direzione dalla quale stavamo arrivando. Nel cambio di convoglio troviamo un ragazzo che dove andare nella nostra stessa località e si offre da guida. Lo seguiamo, però ci fa capire che il viaggio, tra cambi ed altro, durerà circa tre ore e venti. Un’eternità! Decidiamo così, dopo aver ringraziato il giovane, di prendere un taxi. Ci chiedono quasi duecento euro, trattiamo finche l’autista della macchina più scassata ci dice: “Vi porto io per centoventi”. Aggiudicato. Naturalmente senza aria condizionata, sedile con le molle quasi di fuori ma va bene, solo che ci porti a Tihany sarà una vittoria! Arrivati ad un distributore fa il pieno e, all’improvviso, toglie la scritta taxi...(ogni mondo è paese).
Arriviamo nella piccola penisola del lago dopo un paio d’ore e quasi dimentico lo zaino sul taxi. Andiamo a ritirare i pettorali e notiamo con piacere che la zona è piena di gente allegra proveniente da tutto il mondo e note musicali volteggiano nell’aria. Si scherza, si ride ed intanto espletiamo tutte le formalità. Verso le otto e mezza il pasta party: Un piatto di farfalle scotte, con panna, bacon e zucchero a velo, un bicchiere di birra e un gelato. Quando tutto è sistemato andiamo in albergo. Andare in albergo? E’ un eufemismo. Chiediamo indicazioni ma naturalmente c’è chi non capisce e chi ci manda da tutt’altra parte. Taxi non ce ne sono, tutto buio e i locali stanno chiedendo. C’è un ragazzo, parla inglese ed è gentilissimo, ci fa vedere sul suo navigatore dove dobbiamo andare e naturalmente dobbiamo fare quasi cinque chilometri a piedi... Con santa pazienza c’incamminiamo. Dopo un chilometro e brancolando nel buio, arriviamo ad un incrocio: “E adesso?” Marco si ricorda che sul suo telefonino ha il navigatore, lo accende e, naturalmente, siccome non ce ne va una per il verso giusto, ci dice che deve aggiornare le licenze e quindi non funziona. All’improvviso, ecco il miracolo,una coppia ci viene incontro e la ragazza parla italiano. Gentilissimi più che mai ci fanno arrivare un taxi da un paese vicino, che giungerà dopo mezz’ora e così dopo tanto girovagare giungiamo in albergo.
E’ tardissimo, ma prepariamo comunque tutta la nostra roba per l’indomani mattina e poi sveglia alle quattro. Naturalmente, non potendo fare colazione perché non in orario, ci affidiamo alla bontà del portiere di notte che ci prepara un panino con prosciutto, formaggio e... peperoni. Sono le cinque del mattino ed insieme all’amico Giacomo Maritati ci rechiamo alla partenza e, tra foto ricordo e battute, aspettiamo l’orario della partenza. E’sabato 30 Giugno sono le 6.00 del mattino e, dalle sponde del lago Balaton in Ungheria, parte la 6^ edizione ella Ultrabalaton, gara di 212km che costeggia in parte l’omonimo lago. C’è caldo, ma ancora si sta bene.
Man mano che passano i chilometri, scorriamo simpatici villaggi ed i nostri occhi catturano i bei colori che disegnano il “mare d’Ungheria”. Incontriamo gente simpatica che ci vede come marziani, tutto molto particolare ma il nemico trama nell’ombra. La temperatura aumenta sempre di più e più avanzo e più mi accorgo che il percorso non è poi del tutto piatto come veniva descritto. Due salite col 10% di pendenza, un percorso fatto di saliscendi interminabili, passaggi su sterrato, erba e ancora asfalto. Sarà così per una sessantina di chilometri, quando poi il tragitto diventerà piatto fino quasi alla fine. Ben presto la temperatura si stabilizza sui 42/43 gradi, siamo ancora agli inizi e tutto procede abbastanza bene. Lungo la strada già si vedono atleti in difficoltà ed ancora il cinquantesimo chilometro è lontano da venire. Sirene d’ambulanza squarciano l’atmosfera e purtroppo questo sarà il refrain dell’intera corsa. La mia andatura è cauta e così mi permetto il lusso di scattare anche qualche foto ricordo. Le bevande ai ristori: Acqua, the, birra, coca, integratori, iniziamo a trovarle calde. Purtroppo anche gli Organizzatori si son fatti cogliere impreparati da questa anomala ondata di caldo. Non si trova del ghiaccio neanche a pagarlo (alla fine ne troveremo un pò ad un solo ristoro) e così, man mano, inizia a prendere corpo il dramma.
Non me ne accorgo subito ma pian piano pensieri negativi iniziano a far capolino, poi un’ondata di negatività prende posto nella mia testa. Pian piano il caldo s’impossessa di me. Reagisco, alterno il passo alla corsa cercando di riprendermi. Scorrendo alcune località turistiche vedo gente rilassata e sorridente e tutto questo stride col mio stato d’animo. Le persone, le cose, che incontro lungo il mio percorso non hanno più forme definite, sembrano liquide, l’asfalto bollente da lontano sembra bagnato, è un gioco ottico, ma in quel momento mi sembra stranissimo. In preda agli incubi e a paure che non ho mai avuto, inizio a camminare. Ma camminare sarebbe bello, barcollo, sono alla deriva. Passano i chilometri, tanti, pochi, non so. Il tempo scorre lentamente. Ho ancora un briciolo di lucidità, sottovoce cerco i motivi di questa disfatta clamorosa, le cause di queste mie difficoltà.. Un urlo dalle viscere esclama: “Sei un esaltato, ti devi ridimensionare, non hai più voglia di soffrire, hai sottovalutato la gara e adesso paga. Ritirati, ritirati, ritirati! Cerco di lottare ma, come un pugile suonato che vaga per il ring, sbando per la strada, non capisco niente. Avevo però coscienza che c’era anche chi stava peggio di me: Atleti stesi sull’erba nelle aiuole, sotto gli alberi nelle villette sul lago. Sembrava un campo di battaglia, una Via Crucis. Sempre quella flebile vocina mi diceva: “Vai avanti,vai avanti!”, ma subito veniva sopraffatta dai mostri. Sono ormai allo stremo delle forze. E’ pomeriggio inoltrato e adesso ho deciso di ritirarmi, chiedendomi che senso avesse continuare quello sperpetuo. Definitivamente nel mio cervello avevo già scritto la parola “fine” ed avevo già pensato a tutte le scuse che avrei trovato per giustificare questa mia personalissima Caporetto.
All’improvviso però una voce: “Ciro come va?” “Manu, mi ritiro, non c’è la faccio più, sto morendo o forse sono già morto...”. “Sulla mia macchina non sale chi si vuol ritirare. Ti fai dare un passaggio da qualcun altro”. La macchina grigia, apparsa all’improvviso, accelera e se ne va lasciandomi solo in quell’oceano d’asfalto bollente. Con i miei problemi e le mie angosce vedo un bar, fuori c’è un’altalena e un tubo di gomma dalla quale esce acqua. Mi fermo, mi tolgo le scarpe (cosa da non fare mai), slaccio il marsupio e cerco un pò di refrigerio all’ombra sotto l’altalena. Ormai sono perso. Dopo venti minuti mi rialzo, l’acqua mi dà una leggera scossa, ma ormai i titoli di coda stanno passando. Duecento metri più avanti c’è un ristoro, impiego dieci minuti per raggiungerlo anche perché non riesco a capire se sogno o son desto, credevo fosse un miraggio. Dieci interminabili minuti per porre fine alla mia agonia. Mi prendono il tempo facendomi mettere il chip, che ho all’indice sinistro, nella macchinetta. Non ho neanche la forza per dire: “Mi ritiro”. Vedo una sdraio, mi siedo un attimo e, mentre sto per raccogliere le ultime forze per chiamare il giudice, ecco che inviato dal cielo arriva il mio angelo salvatore, Alessandro “Rambo” Papi che, vedendomi come mai prima, esclama nel suo idioma toscano: “Cirinho, icchè tu fai?”. “Ale, amico mio, mi ritiro. Non ho più voglia di soffrire” e quasi piango dalla rabbia. Lui, dall’alto della sua esperienza, mi consiglia di stendermi e riposare un pò, non prima però d’aver bevuto e mangiato qualcosa. “Tanto il tempo c’è, stai tranquillo”. Intanto Manu, sua moglie, mi ha comprato una bottiglia d’acqua frizzante fredda che prima di bere mi passo sul collo, in faccia e sul mio stanco corpo. Il Papi riparte e la moglie lo segue dopo qualche minuto. Passa un americano e mi dice:”Cirinho, go,go c’mon, only two hours, poi sole no più”. “Sono le ultime parole che ricordo prima d’addormentarmi ed essere rapito dai fantasmi. Ogni tanto, qualcuno mi tocca forse per vedere la mia reazione, rispondo ma non so in quale lingua.
Mi sveglio e mi accorgo che sono passati circa cinquanta minuti. La situazione è completamente ribaltata. Sono fresco, tranquillo e riparto rinvigorito nel corpo e nello spirito. Echeggia nella mia mente il discorso di Al Pacino alla sua squadra nel film “Ogni maledetta domenica”. Lo conosco a memoria e, cambiando le parole, modellandole su quello che stavo facendo, mi ripeto: “Non so cosa dirti Cirinho, mancano un pò più di cento chilometri al traguardo. Tutto si decide oggi, ora tu o risorgi come atleta o scompari nell’oblio della mediocrità. Hai visto l’inferno pochi minuti fa, potevi rimanervi, bruciare lì, ma hai deciso di lottare e vedere la luce. Hai deciso di scalare le pareti dell’inferno e venirne fuori.... Adesso io non posso obbligarti a lottare! Guardati dentro, guardati negli occhi, scommetto che ci vedi un uomo determinato a guadagnare chilometri, ci vedrai un uomo che si sacrificherà volentieri per questa sua meta”. Quello che è successo prima non è mai esistito, vado avanti con fatica, certo, ma sicuro di me stesso. Ormai ho ripreso il controllo della situazione e so che niente e nessuno adesso mi potrà fermare. Mi ricarico della vitalità che sprizza la gente che vedo ballare, che mi saluta e m’incoraggia. Un sorriso può fare veramente molto quando si corre già da tante ore. Attraversato un tratto di centro urbano, si passa attraverso una pineta dove vengo anche investito da una bici che accompagna un atleta. Cado, mi rialzo e corro per altre tre ore. Quando è ormai quasi buio decido di prendere i manicotti, lo scaldacollo e la luce per la notte. Prima di ripartire mi sdraio un pò sull’erba, sotto un albero e mi addormento alcuni minuti.
Poco dopo riparto sempre con tranquillità assoluta, riprendendo la mia marcia. Per lunghi tratti si costeggia una ferrovia dove transitano treni molto vecchi che hanno il sapore del tempo che fu. La mia mente, a torto o a ragione, mi porta a pensare alla seconda guerra mondiale, quando milioni di persone innocenti venivano deportate nei campi di sterminio. Dopo un pò, anche la fortuna inizia a guardarmi in faccia perché sulla mia strada incontro due francesi: Juan e Gilles, quest’ultimo appena reduce da mille chilometri corsi qualche giorno prima della gara e per non farsi mancare niente anche dieci volte finisher alla Spartathlon, sei volte all’UltraBalaton e alla Nove Colli Running. E’ stanco, ma molto sicuro di sé, il transalpino. Formiamo un bel trio, parliamo, cerchiamo d’allentare la stretta della fatica. Ormai è notte, la temperatura dai 42/43 gradi diurni scende a 22/24. Nonostante l’escursione termica, il caldo c’è e si sente. Usiamo questa tattica di gara: Usciti dai ristori, camminiamo cinque minuti, poi una leggera corsa fino all’altro check point. Nei tratti dove si va al passo, sono loro che mi tirano, quando invece c’è da correre mi metto alla testa del gruppetto e faccio l’andatura, preoccupandomi di non staccarli. Le soste ai ristori sono ogni due brevi, una un pò più lunga. Tattica che si rivelerà vincente.
Figura fondamentale durante la nostra corsa è la moglie di Gilles, sempre pronta ad assisterci e a coccolarci. Lungo la notte il passaggio davanti ai ristoranti e ai locali notturni ci tiene svegli. Il percorso, in gran parte su pista ciclabile, è sempre ben segnalato e difficile da sbagliare. Ormai è quasi l’alba. Siamo ad un ristoro e bevo un bel caffè per la prima volta da quando sto correndo. Ripartiamo, ancora qualche minuto ed il cielo inizia a colorarsi d’azzurro, mentre il sole comincia già a pizzicare. La nostra tattica varia di poco, concedendoci più cammino che corsa. Mancano circa sessanta chilometri al traguardo. Col nuovo giorno però cambia in me qualcosa, la tranquillità si accompagna ad una forte determinazione, lo sguardo diventa cattivo. Gli occhi della tigre, adesso ho gli occhi della tigre! “Voglio solo il traguardo e bramo per quello. Il tempo e i chilometri passano, è cambiato anche lo scenario, ora si vede anche il lago. Inizia di nuovo il caldo soffocante. Ma, idratandoci bene e spugnandoci ancora meglio, debelliamo qualsiasi problema. Arriviamo a 19 chilometri dal traguardo e decido di cambiarmi. Gli indumenti del giorno prima lasciano il posto a nuovi capi puliti, più freschi e... sponsorizzati!
All’improvviso, però, la moglie di Gilles si avvicina seria e ci dice che stiamo andando, proseguendo così, fuori tempo massimo perché è convinta che il close fosse dato alla trentesima ora di corsa. Ci guardiamo in faccia, siamo sicuri che la signora si stia sbagliando, però la stanchezza e la continua insistenza della donna ci fa venire qualche dubbio: “E se avesse ragione?” Inizio ad innervosirmi un pò, non posso arrivare al traguardo e farmi sbattere la porta in faccia, non voglio! Decidiamo di recuperare per stare sotto le trenta ore, Juan però è poco reattivo, Gilles se ne accorge e non lo molla, anche io rallento e resto con loro. Non posso andarmene, abbiamo fatto più di cento chilometri insieme. Mi viene da piangere perchè so che potrei farcela. Gilles, a otto chilometri dal traguardo mi ferma, mi abbraccia e dice: “Vai Cirinho, se hai qualche dubbio è meglio che tu vada. Io sono sicuro delle trentadue ore, tu no. Vai, amico e grazie di tutto!” Aspetto Juan, abbraccio anche lui e parto come una scheggia, per farvi capire in otto chilometri gli ho dato 59 minuti (ma questo non conta).
Ormai solo un ristoro manca alla fine, lo passo, non mi fermo neanche. Due chilometri. Una lunga e ripida salita e poi gli ultimi mille metri. E’ domenica, mancano quasi tre, quattro minuti a mezzogiorno, ho il cuore che mi pulsa al massimo, è la gioia d’avercela fatta un’altra volta. Sono felicissimo, volo, l’ultima discesa ripida prima del traguardo e il gps segna 3'24’’ al km, la gente applaude, urla. Vedo il traguardo azzurro, azzurro come il cielo e bello come il mare. Voglio solo lui. Eccolo, trenta,venti, dieci, cinque metri: “Siii!”. Urlo, m’inginocchio e guardo in alto. Inizio a piangere, ce l’ho fatta. 29 ore 57 min. 33 sec. Al traguardo è stato fantastico incontrare gli altri finishers ed i loro accompagnatori.
Vedere gli altri arrivi è stato ancora più emozionante, il sapere cosa abbiamo sofferto per essere li in quel momento mi ha toccato il cuore. E’ stato difficile poi nascondere le lacrime quando Giacomo e Alessandro hanno oltrepassato il traguardo. Ho aspettato anche i miei due amici francesi e vedendoli da lontano sono corso verso di loro. Ci siamo abbracciati in una stretta infinita. Ci siamo guardati negli occhi e nessuno parlava, ma in quel silenzio c’era tutto: Fatica, emozione, rispetto e ringraziamenti. Signori, questo significa essere un ultrarunner. Dopo aver bevuto qualche litro di birra e mangiato una decina di ghiaccioli son tornato in albergo.
Cerco Marco ma lo vedrò solo dopo qualche ora quando mi racconterà della sua odissea. Era in terza posizione, è svenuto (ma non si ricorda) e si è risvegliato in ospedale a sessanta chilometri, con tre flebo nelle vene e col viaggio di ritorno da fare a sue spese. Intanto, posto su un social network la mia contentezza, ma anche la mia enorme delusione derivata dal fatto che m’ero praticamente ritirato. No, questo non mi andava giù assolutamente. Dall’Italia, però, alcuni amici mi facevano capire attraverso i numeri che dovevo essere solo contento di come fossero andate le cose. 202 partecipanti, 34 arrivati al traguardo ed io ventesimo. Praticamente solo il 15 % dei partenti era arrivato a completare il periplo del lago capovolgendo quelle che erano le percentuali degli altri anni.
La sera, come se non aversi corso per quasi trenta ore, io e Marco ci regaliamo un’altra passeggiata di otto chilometri con salite annesse per andare a riprendere, alla partenza, le sacche del forte atleta. Io cammino benissimo, non ho dolori muscolari, così come non ne ho avuti lungo la gara Non ho neanche una vescica e le caviglie non sono gonfie (grazie anche alle mie scarpe ON). Arrivati al ritiro sacche, una bella ragazza bionda mi riconosce e mi dice :”Ti ricordi, ti ho versato il caffè stamattina”. Un sorriso e poi le chiedo se posso rimanere a cena con lei intanto che Marco era intento a cercare le sue sacche. Questa donna mi ha regalato momenti fantastici, sguardi meravigliosi e una tenerezza infinita. Ritorniamo in albergo giusto in tempo per vedere il finale della debacle azzurra contro le furie rosse spagnole. Il giorno dopo, partenza per Milano e addio UltraBalaton. Addio, perché, anch’io come Paganini, non concedo mai il bis.
Voglio ringraziare come sempre chi mi ha permesso di correre questa gara: La mia società (Reggio Event’s), il mio allenatore (Vincenzo Esposito),il mio sponsor (Ginetto sport - Reggio Emilia) e tutti gli amici che mi seguono con simpatia non facendomi mancare mai il loro supporto.

4 commenti:

  1. Ma alla fine il tempo massimo era di 30 o 32 ore?
    Credo che nemmeno il primo tragico Fantozzi
    possa eguagliare le sfortune avute in questa gara...

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  2. Ciao Chico,il tempo max era di 32 ore. Hai ragione ,neanche un film di Fantozzi...:-)

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  3. Ciro che dire immenso , ti faccio i miei complimenti più sinceri all'atleta ma sopratutto all'uomo.
    Un abbraccio
    Osso

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