venerdì 6 settembre 2013

Badwater Ultramarathon 2013 :La consapevolezza d'aver vissuto un SOGNO...


    THANK YOU DEBRA (Usa),
THANK YOU KYNDRA (Canada),
THANK YOU RICK (England),
GRAZIE ANDREA (Italia).

Quando alla fine le luci dei riflettori sono spente,le parole riversate a fiumi nelle interviste  non hanno più l’eco e la forza dirompente dell’attualità, quando di  feste e celebrazioni rimane solo il piacevole ricordo; resti da solo. E’ in questo momento che inizi a rivivere tutta l’avventura. In codesto istante è la mano che, spinta dalla forte emozione e guidata dal cuore,vuole raccontarvi di come una fantasia possa diventare realtà. Era il tardo pomeriggio di qualche anno fa. I muscoli un pò stanchi,reduci da un allenamento abbastanza lungo iniziato quando ancora i raggi solari cadevano a picco sulla terra a queste latitudini; il sole ormai al tramonto faceva sfumare come per incanto l’azzurro in un rosso arancio dal sapore desertico e, da lontano, un muretto scalcinato. ”Dai, Cirinho, raggiungilo per un ultimo allungo”. Quello sforzo fisico finale fu la genesi di tutto...
“QUALUNQUE COSA TU POSSA FARE,QUALUNQUE SOGNO TU POSSA SOGNARE,COMINCIA. L’AUDACIA RECA IN SE GENIALITA’ , MAGIA E FORZA. COMINCIA ORA” Goethe. Questa epigrafe celata tra un murales e persa tra erba rampicante si leggeva a stento ma fu per me una folgorazione. “Perché no ? Voglio provare a portare a termine le ultramaratone più lunghe e dure al mondo ? “ Partivo da zero o quasi. Non sapevo cosa significasse  correre più di cinquanta chilometri e come avrebbe reagito il mio corpo ad una grande “abbuffata” d’asfalto ma s’inizia sempre così, con pazienza ed un filo d’incoscienza. Pian piano,allenamento dopo allenamento,gara dopo gara, il cammino verso il Sogno prendeva forma: Spartathlon,246km (Grecia) ; Nove  Colli Running,202km (Italia) ; Ultra Balaton,212km (Ungheria), Brazil 135, 217km (Brasile). L’autostima aumentava sempre di più,la popolarità crescente e tanti sponsor che mi contattavano per legare il loro nome a questo tipo d’imprese,mi fecero capire che il momento buono fosse arrivato. Mancava la madre di tutte le gare,la partecipazione a quella che è universalmente riconosciuta come la corsa su strada più dura al mondo. La SFIDA DEI CAMPIONI,come l’amano definire gli uomini a stelle e strisce,la Badwater Ultramarathon. Lì,dove non basta iscriversi ma devi essere prima invitato previo invio di un curriculum nel quale devono figurare una serie di gare particolari e poi devi essere anche un pò “speciale” per avere solo il coraggio  di pensare a questa prova. Gli organizzatori non accettano tanti atleti ma solo cento eletti selezionati tra migliaia di richieste. Era giunto il momento giusto,me lo sentivo dentro. Quella vocina che tante volte era stata mia compagna di ventura stavolta non sussurrava,strepitava. Primi giorni di febbraio e dal mio computer,incrociando le dita,partì la documentazione richiesta per la selezione. Sapevo che avrebbero risposto dal quindici in avanti ma ogni attimo che passava,ogni secondo che trascorreva,era per me come l’avvicinarsi della befana per un bimbo che attende il dono più bello,quello per cui bisogna essere stati  buoni tutto l’anno ed io bravo lo ero stato. Un bel giorno lampeggia sul monitor una lucina; posta in arrivo. In Italia è notte,in California è pomeriggio. Pensai subito che potesse essere la mail che aspettavo. Tutto l’entusiasmo che fin a quel momento m’aveva accompagnato  ad un tratto mutò in paura . “ Se non mi avessero preso? Tutti i sacrifici fatti... “ La voce da dentro mi suggeriva di premere quel tasto. Chiusi gli occhi e pigiai. Quando li riaprii,lessi :
”Hallo,
Congratulations! You have been accepted to compete in the 2013 Badwater Ultramarathon, presented by AdventureCORPS, Inc. You are part of a select group who will participate in what is recognized across the globe as “the world’s toughest footrace.”

Ero emozionatissimo, non sapevo se ridere o piangere,se urlare o stare zitto cercando di capire e mettere a fuoco la situazione. Questo tourbillon di stati d’animo durò un lunghissimo secondo,un interminabile attimo poi la quiete fu interrotta dalle mie grida che raggiunsero un’intensità pari solo a quella dopo il gol di Milito al Bernabeu nel duemiladieci,quando l’Inter diventò Campione d’Europa.Scoppiai in lacrime ripensando ai tanti  sacrifici fatti negli ultimi anni,scorrevano davanti a me le immagini delle persone  mi avevano deriso quando  correvo nella nebbia padana,sotto la pioggia o ricoperto di neve La mia però non era una rivincita nei loro confronti,troppo stupido e banale,era invece  il ringraziamento perché dai loro sorrisini,dalle loro battute avevo tratto la linfa vitale per i miei allenamenti. La partecipazione alla Badwater Ultramarathon è l’apice della carriera di un ultramaratoneta,è il punto d’arrivo. E’ la gara dopo la quale puoi dire:”Appendo le scarpe al fatidico chiodo” . Ero lì, immobile e leggevo ancora il messaggio quando mi vennero in mente le parole del grande Josè Mourinho negli spogliatoi dello stadio di Madrid. ” Avete fatto dei sacrifici enormi per arrivare fin qua,adesso andate in campo a scrivere la storia”. In quel preciso istante io ero nella condizione di poter scrivere la MIA storia. Unico obiettivo, arrivare al traguardo,in qualsiasi condizione. Iniziava così la grande avventura. Formalizzo l’iscrizione e riprendo tutta la documentazione che avevo acquisito sulla manifestazione in questi anni. Visione di filmati,lettura di blog  e allenamenti iniziarono a scandire il tempo delle mie giornate determinandone il ritmo. La Badwater Ultramarathon è una gara particolare, vede la partenza dal bacino omonimo situato nella Death Valley, in California, alla quota di 85,5 metri sotto il livello del mare e  l’arrivo invece alle pendici del monte Whitney, alla quota di 2550 metri, lungo il percorso trail che circonda la montagna più alta del Nord America. Non è leggenda la storia che narra di come i corridori scelgano di correre sulle linee bianche della strada asfaltata onde evitare che il calore del terreno possa danneggiare la suola delle loro calzature. L’intero percorso misura 135 miglia, cioè più o meno 217 chilometri.
Proprio per queste sue particolarità ha un regolamento molto rigido che bisogna scrupolosamente rispettare. La prima cosa da fare è approntare un equipaggio o crew (come lo chiamano gli statunitensi) che ti segua lungo il percorso privo di ristori. Può sembrare facile ma non lo è . Una squadra esperta fa la differenza e non basta la sola buona volontà. Col senno del poi ho potuto constatare di come sia stato fortunato a trovare Debra (Usa), Kyndra (Canada) e Rick (Inghilterra) che insieme ad Andrea (Italia) sono stati la mia ombra nei giorni della corsa e mi sono accorto  poi, di come un giorno dovendo raccontare di questa gara, di quello che doveva essere un evento del quale dovevo essere il protagonista assoluto,mi sia ritrovato a narrare con orgoglio di un lavoro di squadra,di un’organizzazione perfetta che mi ha permesso  o meglio ci ha consentito di oltrepassare il traguardo di quella che a torto o a ragione è definita l’ultramaratona più dura al mondo perchè si corre nel punto più caldo del globo terrestre. Ho scritto “ Ci ha consentito” perché anche la squadra teneva tantissimo a questo obiettivo e credo che non possa esistere una grande impresa senza un lavoro d’equipe. Mettere poi da parte le individualità e porsi al servizio del collettivo è impresa ardua ma è da persone intelligenti e se permettete... Lì, in quella valle sperduta tra la California e il Nevada, non c’era il campione che correva o il grande manager di una delle banche più importanti al mondo,non c’era una collaboratrice dell’uomo più importante degli Stati Uniti e neanche la fortissima trailer canadese o il fidato amico venuto dall’Italia; c’erano :Cirinho, Rick, Debra, Kyndra e Andrea. Tutti per uno e uno per tutti. Un gruppo importante e coeso che lotterà per la stessa causa. Dopo aver approntato,con l’aiuto del sito della manifestazione,il crew, non mi restava che organizzare la logistica: voli,alberghi, abbigliamento gara e tutto il necessario per intraprendere questo “viaggio”. Il tempo trascorreva inesorabile e giugno è arrivato in un attimo. Il morale della truppa era altissimo e traspariva dalle mail che ci scambiavamo quasi quotidianamente  nonostante le notizie di caldo record che ci giungevano proprio da quella zona degli Stati Uniti d'America;  ormai si contavano solo i giorni che ci separavano dalla partenza. Era tutto schedulato ed avevamo anche già la lista della roba da comprare una volta su suolo americano. Sul più bello però arriva un infortunio muscolare a guastare l’idillio. Non riuscivo a correre,il male era allucinante. Con calma, riposo qualche giorno ma il problema si riproponeva  sempre. Cercavo di trovare una soluzione ma poi,all’improvviso, ricordai che il grande Antonio Tallarita si serviva del CTR di Reggio Emilia per salvaguardare e curare i suoi muscoli. Una telefonata ed eccomi nei giorni successivi affidato alle cure del centro emiliano. Controlli,terapie e dopo un pò sono ancora in piedi ed il sorriso torna a brillare sul mio viso. 9 luglio, vigilia del volo per gli Stati Uniti. Grazie ai giornalisti di Sport Reggio faccio una conferenza stampa di presentazione al FitVillage di Reggio Emilia dove accorrono diversi amici, qualche giornalista e tutti quelli che mi hanno aiutato in questa avventura : Coopselios,La Via della Felicità e Ginetto sport (che ho fatto impazzire per la ricerca dei materiali che mi soddisfacessero).


Il giorno dopo,10 luglio, io e Andrea partiamo dal capoluogo emiliano. Viaggio interminabile: Bologna-Francoforte-Philadelphia-Los Angeles. Arrivo previsto in California verso le 21 ma un temporale ci terrà fermi nel Massachusetts qualche ora in più del dovuto facendoci arrivare con un notevole ritardo. Ad attenderci all’aeroporto con tanto di videocamera il Presidente dell’associazione La Via della Felicità di cui io sono uno dei testimonial. Raggiungiamo l’albergo situato nei pressi di Hollywood ed andiamo a letto stanchissimi. La mattina seguente si esce per una corsetta ma purtroppo il dolore alla coscia sinistra che m’aveva angosciato il mese precedente  riaffiora e tutto ciò  metteva qualche zona buia al mio orizzonte. Tutta la giornata, poi, mi vedrà impegnato in attività promozionali. Con mia enorme sorpresa e piacere quando giungemmo a Glendale (L.A.),sede internazionale dell’Associazione, vidi affissi dei manifesti che La Via della Felicità aveva fatto apporre per ringraziare me e John Radich (altro ultramaratoneta) per il nostro impegno nel divulgare quelli che ormai sono i famosi ventuno precetti della campagna sociale.
E’ venerdì a Los Angeles. Arrivano anche Debra,Kyndra e Rick e dopo le presentazioni di rito ci rechiamo a noleggiare l’auto che ci servirà per la gara insieme al minivan del britannico. Qui mi va di precisare che io avevo intenzione di fare la corsa con una sola vettura in modo da contenere i costi ma la mia squadra mi fece capire l’importanza che un secondo veicolo avrebbe potuto avere. Questa opzione c’avrebbe dato la possibilità di far riposare l’equipaggio e, col senno di poi,una scelta giustissima e vincente. Pranzo con pizza made in Usa e nel pomeriggio andiamo in un grandissimo store a comprare tutto il necessario per questa spedizione uscendone quattro ore dopo. Sabato mattina. Come da programma prima di lasciare la California per raggiungere il Nevada compriamo il cibo che ci servirà lungo il tragitto. Un paio d’ore e poi via. Man mano che si usciva dalla città il paesaggio iniziava a mutare  e da centro abitato si passa in un attimo al deserto. Ogni tanto qualche sosta per mangiare e fare rifornimento ci serviva per allentare la morsa del viaggio e della temperatura via via crescente. In serata dopo circa quattrocento chilometri arriviamo a destinazione, Amargosa Valley. Il nostro albergo è situato in pieno deserto con un laghetto artificiale che lo circonda. All’interno sembra di essere in un film western: casinò,musica country,gente che balla,canta e si diverte. Scarichiamo le auto e portiamo tutto su nelle camere. Cena e poi a letto presto. Domenica mattina,giorno di vigilia della corsa. Vado a correre un pò nella speranza,poi vana,che il dolore fosse solo uno sbiadito ricordo. Dopo mezz’ora rientro e dico ad Andrea che ci servirà tutta l’esperienza che ho ed un pò di fortuna per l’indomani. Furnace Creek.Ritiro dei pettorali, incontro con gli  organizzatori e conoscenza delle altre squadre. Arriviamo in questo resort e mi accorgo di essere in una grande famiglia. Ci conosciamo quasi tutti, ognuno di noi ha una storia dietro di se e tutti abbiamo una ragione per essere li in quel momento, ognuno ha la sua esperienza personale ma tutti siamo uguali nell’essere disposti ad esporci  a condizioni estreme pur di trovare il nostro limite. Sia che sei li come atleta o come equipaggio. Non potevo fare a meno di provare una sensazione di gioia. Il cerimoniale del pre-gara  si svolge in modo veloce e simpatico. Gli organizzatori scattano le foto di rito ai singoli partecipanti e ai loro collaboratori e poi tutti gli atleti ai bordi della piscina per l’istantanea che ci vedrà ritratti, questa volta, tutt’insieme. Qui,dico la verità ,mi sono emozionato un pò. Quella piscina,quello scatto che avevo visto in tanti siti adesso vedeva me tra i protagonisti insieme ad altri novantanove prescelti.
Mi stavo riprendendo con gl’interessi tutto quello che in questi anni avevo dato. Ancora però non avevo visto niente,il bello doveva ancora arrivare. Verso le tredici,sotto un sole cocente,facciamo un incontro con i promotori che si rivelerà benefico per la gara. Ci sono cinquantuno gradi,ci stavamo sciogliendo,si moriva. Ero insieme a Paolo Bucci,altro partecipante italiano alla corsa e ci guardavamo esterrefatti. Io pensavo :”Se lui, alla terza presenza, mi guarda così,cosa m’aspetterà domani? “.Pian piano tanti atleti sparivano alla chetichella cercando riparo all’ombra degli alberi, tentando di trovare refrigerio sotto le foglie. Due ore interminabili ma molto utili durante le quali vengono illustrati i comportamenti che gli atleti ed i loro equipaggi avrebbero dovuto tenere in gara e nei casi d’emergenza. C’era ancora gran parte del pomeriggio da sfruttare e noi utilizzammo questo tempo per andare a visionare il punto di partenza della manifestazione e  per fermarci in un altro paio di posti a scattare foto. La sera incombeva ed andammo a cena.  Li,intorno ad un tavolo imbandito, nasce la strategia vincente per la gara. Muniti di fogli e matite ognuno di noi rendeva pubblica la propria idea e prendeva appunti su ciò che erano i pensieri degli altri. Chi aveva qualcosa da suggerire poteva intervenire. Io dissi solo due cose semplici:
La prima, che lungo tutto il percorso mi sarei fatto gestire da loro per un semplice motivo, a quelle temperature e in quel posto c'è concreta la possibilità che una persona non si renda conto della sua poca lucidità o se stia andando verso un’insolazione oppure se dovesse essere già preda di allucinazioni. 
La seconda fu che mai e poi mai,anche in caso di emergenza, avrebbero dovuto farmi mettere aghi nelle vene dai medici perché sarei stato squalificato.Gli dissi in modo perentorio: “ IO  QUI O ARRIVO VIVO AL TRAGUARDO OPPURE ME NE VADO MORTO DAL PERCORSO !!! “. Ci fu una discussione che durò circa un’ora e mezza poi ne facemmo il compendio dal quale scaturì:
1) Il minivan sarebbe stata l’auto sulla quale avremmo messo i rifornimenti e che m’avrebbe seguito     lungo tutto il percorso; l’altra autovettura sarebbe stata impiegata d’appoggio;
2) Nei primi sessantaquattro chilometri di corsa, quando da regolamento sarei stato da solo, la  squadra si sarebbe divisa in due coppie che si sarebbero alternate, seguendomi sul minivan, ogni tre  ore Questo permetteva d’avere sempre due persone fresche e lucide insieme a me.
Il minivan m’anticipava di un miglio e mezzo ;
3) Dopo i  sessantaquattromila metri iniziali, avrei avuto uno che correva con me, due al seguito ed un altro che andava a riposare per ritornare dopo tre ore. Quello che m’affiancava nella corsa non avrebbe corso  più di quattro, cinque miglia  e poi sarebbe stato sostituito. I miei ristori a questo punto  sarebbero stati ogni miglio.
Queste cose semplici e lungimiranti ci hanno permesso un perfetto dosaggio delle energie psico-fisiche.
Lunedì, 15 luglio, anche il grande giorno arrivò. Sei del mattino, fui svegliato non so da cosa forse dall’assordante silenzio;  in camera ero da solo. Il mio pensiero istantaneamente volò a quelli che  stavano partendo col primo gruppo e mentalmente partì un in bocca al lupo per l’amico Paolo Bucci e il suo equipaggio. Andrea e gli altri erano già al lavoro, stavano riempiendo di ghiaccio i frigo, attaccando gli adesivi che da regolamento dovevo avere sui veicoli e  stavano per caricare tutto l’equipaggiamento a bordo delle auto. Rimasi ancora a letto cercando ancora la tranquillità in quelle due ore che ancora mancavano al suono della sveglia. Mi riassopii placidamente.  Ore otto, il telefonino mi fa capire che l’ora è scoccata ma non posso fare a meno di pensare anche a quelli del seconda onda che sono in quel momento sulla linea di partenza. In camera non sono agitato però sento addosso tutto il peso della responsabilità. Per questa mia avventura c’erano persone che avevano fatto dei sacrifici enormi, viaggiato per migliaia di chilometri per raggiungermi,c’era chi m’aveva dato tanti soldi per coprire  parte delle spese e chi m’aveva organizzato e pagato tutto il soggiorno a Los Angeles, ancora chi m’aveva noleggiato la macchina e chi aveva organizzato conferenza stampa,interviste ai giornali e a trasmissioni televisive,infine ma non ultimo, chi mi aveva fornito dei materiali tecnici per la gara.
Colazione con qualche barretta e poi via,direzione Death Valley,California. Lungo la strada tanti atleti  che erano partiti nelle ore precedenti. Sulle loro facce un misto  di stanchezza ed incredulità. Giungemmo a Badwater e c’erano moltissime persone tra accompagnatori,podisti e organizzatori che affollavano il sito. Facciamo come da programma le foto di gruppo ed è tutto surreale.
Sono quasi le dieci del mattino,sono molto gasato perché essere inserito in questa griglia di partenza significa essere un atleta di alto livello. In quel momento accade una cosa stranissima.Mi stacco dal mio corpo e dall’alto  vedo Dean Karnazes,Harvey Lewis,Charlie Engle,Oswaldo Lopez ed insieme a loro anche Ciro Di Palma. Ritorno in me. Devo sedermi un momento perché  sono  molto emozionato. Nascosto alla vista di tutti mi siedo e, mettendomi  la testa tra le mani, chiudo gli occhi. Penso a dove sono e con chi sono. Mi sento orgoglioso di me stesso così come sono sicuro lo sia chi mi vuole bene e mi segue. E’ una bella sensazione.  Sono al settimo cielo. Qualche minuto dopo mi rialzo e torno alla realtà.
Manca poco all’ora x e le note dell’inno americano iniziano ad echeggiare nella valle. Sono concentratissimo,poi three…,two…,one…,goooooooooo. Ero ufficialmente un corridore della Badwater Ultramarathon 2013.
C’erano quasi cinquanta gradi ed avevo i brividi di freddo che mi attraversavano il corpo. Emozione indescrivibile. Di tutto bianco vestito e con la mia cresta fucsia inizio  molto cauto. Ero rapito dal panorama e perso in quello spettacolo della natura che mai i miei occhi avevano ammirato. La tensione si era trasformata in serenità, ero in pace con me stesso e col mondo intero. Una bella impressione. Ero felice. Molti atleti mi passavano ma io non cambiavo mai il mio atteggiamento ed il mio modo di correre.
Come concordato col crew,i ristori erano precisi e ben organizzati. Trovavo sempre  la macchina ferma sul lato destro della strada e uno di loro che mi veniva incontro con lo spruzzino ed un bicchiere d’acqua. Io rallentavo,bevevo il prezioso liquido e raggiungevo l’altro quindici metri più avanti mentre venivo bagnato con acqua fredda nebulizzata. Il secondo mi dava eventualmente dei cibi solidi se fossero stati richiesti da me in precedenza,mi toglieva cappellino,spugna e bandana dalla testa e l’immergeva nel ghiaccio,rimettendomeli dopo qualche secondo, in più mi riempiva di ghiaccio una fascia che avevo al collo. In questo modo ero praticamente  chiuso in un frigorifero. Tutto perfetto. Le ore trascorrevano.E’ il primo pomeriggio. Il sole è alto e battendomi  sul polso destro mi fa  diventare viola il quadrante del cronometro che avevo al polso. Il calore era molto intenso me ne accorgevo dall’effetto ottico in lontananza sull’asfalto e dal caldo che emanava la strada. Non c’era ombra e mai ce ne sarà. Più s’andava avanti e più mi rendevo conto che stavo vivendo un’esperienza  incredibile. Vedere tanti atleti spingere i loro corpi al di la di quello che anche la più fervida mente umana possa immaginare era straordinario e io lì,insieme a loro a dimostrare che si potesse fare,che era reale.  Man mano che il pomeriggio passava,c’era una metamorfosi anche dei colori che mi circondavano. Correvo  estasiato come in una cartolina o in uno di quei documentari di National geographic, ormai ero un tutt’uno con l’ambiente circostante. Questo  mi faceva andare avanti molto sicuro e sempre più disteso.
Dopo un pò di ore, le ombre degli atleti iniziarono ad allungarsi sulla pece segno evidente dell’approssimarsi della sera. Il mio primo obiettivo,arrivare al cancello di chiusura delle quarantadue miglia entro le dodici ore si stava avvicinando. Ore 20:20, Stovepipe Wells, traguardo raggiunto. La stazione medica piena di atleti e membri d’equipaggi distrutti e stesi per terra sembrava un villaggio appena bombardato,pareva come se qualcuno avesse fatto una carneficina. Piedi sanguinanti,ustioni,insolazioni, c’era d’aver paura,uno spettacolo agghiacciante. Io resto fuori,come previsto mi fermo sedendomi una ventina di minuti e approfitto per mangiare un pò di formaggio ,qualche pomodoro e delle olive. Come un orologio svizzero Kyndra,quando mancava un minuto allo scoccare dei venti inizia a farmi il conto alla rovescia facendomi capire che il momento dell’ozio era finito. Indossai il giubbino catarifrangente e le luci come da regolamento anche se c’era ancora qualche ora di chiaro ed insieme alla canadese iniziai una lunghissima salita con un dislivello positivo di 1524m  che vedrà la sua fine ventinove chilometri più avanti a Townes Pass. Da quel momento ho iniziato ad avere con me un membro del mio team che s’alternerà con gli altri ogni otto,nove chilometri. Questi oltre a farmi compagnia,a fare l’andatura,avrà  anche il compito di  darmi tassativamente dei sali da bere senza ascoltare le mie eventuali proteste .
Più  il tempo andava avanti e i chilometri si rincorrevano,  più il buio c’avvolgeva ma il cielo stellato e sereno era uno spettacolo da mozzare il fiato. La temperatura calava e il mio equipaggio si dava il cambio regolarmente. E’ notte fonda e con me c’è Andrea. Ha l’obbligo di tenermi sveglio. Dal sonno qualche volta sbando un pò e lui con delle manate mi rimette in carreggiata. Parlava,parlava il parmigiano nell’intento di tenermi vivo e lucido.Ci riesciva benissimo. Chiedo ogni tanto  di sedermi per soli cinque minuti cosa che mi veniva regolarmente concessa.Quando arrivammo  in cima a quell’interminabile salita,avverto freddo ma complice la discesa per Panamint Valley ed un’andatura sostenuta riesco a farmelo scivolare via. Non mi rendevo conto della strada che percorrevo ma vedo non lontano da noi una via che s’inerpicava paurosamente. Sembrava un ponte sospeso nelle tenebre,in realtà  erano i fanali posteriori delle macchine che aspettavano i corridori. Per uno particolare gioco di tornanti e prospettive ero confuso; più correvo e più s’allotanava. Una sensazione strana quasi assurda  ma ero preparato a questo,Bucci me ne aveva parlato. Sono quasi le cinque del mattino,il sole fa capolino tra le rocce e le dune di sabbia.La temperatura piano piano inizia a salire. Chiedo se posso riposare una quarantina di minuti ma Rick mi spiega che sarebbe stato meglio sfruttare quelle ore “ fresche” della giornata per avanzare... Riposerò poi nel pomeriggio. Finalmente quella salita che era stato un miraggio notturno diventa reale, Panamint Grade, ventiquattro chilometri e un dislivello positivo di 1036m.Per me è dura, durissima. Sono con Andrea e proviamo,riuscendoci bene,anche a scherzare un pò. Ormai anche quello che era il secondo cancello di chiusura della gara è quasi raggiunto.Mancava poco ed ero abbondantemente sotto il tempo massimo.
Verso le sei e venti del mattino dopo poco più di venti ore e centodiciassette chilometri percorsi raggiungo il check point di  Panamint spring. Sono contento perché il dolore che m’aveva afflitto nei giorni antecedenti la partenza era sparito. Mi fermo per un breve rifornimento e li decido di fare un veloce summit con la squadra. Siamo a cento chilometri dall’arrivo ed abbiamo ancora ventotto ore di tempo. Tanto,tantissimo,un’enormità se fossimo in una corsa comune e in condizioni fisiche NORMALI ma li siamo in un contesto particolare ed io ero stato male quasi tutto il mese che aveva preceduto la corsa.  La squadra è in forma,c’è molto ottimismo e di questo sono lieto. Anch’io sto bene e li ringrazio per il lavoro splendido che stanno svolgendo. Gli spiego però che da li in avanti inizierò ad avere un’andatura lentissima per ridurre al minimo i rischi di un riacutizzarsi del malanno che arrivati a quel punto sarebbe stato nefasto. Il nostro obiettivo,arrivare al traguardo, l’avevamo li a portata di mano,dovevamo avere solo un pò di pazienza in più. Ripartimmo  ponendoci come prossimo traguardo quello di Darwin quando avremmo alle nostre spalle già i due terzi di gara. Riprendiamo il nostro incedere. L’astro lucente ormai sta brillando e ci guarda dall’alto. La lunga lingua d’asfalto nera che si perde all’infinito è la mia compagna d’avventura,faccio sempre attenzione a correre sulla linea bianca perché c’è qualche grado in meno. Ogni tanto incontrastate raffiche di vento caldissimo cercavano di disintegrare la fiducia che avevo in me stesso ma io proseguivo imperterrito. Stiamo ripercorrendo a ritroso,a piedi e in salita ,la strada che qualche giorno prima avevamo fatto in macchina e in discesa con stati d’animo e difficoltà diversi ma adesso era molto più eccitante. A questo punto anche se non ne sentivo il bisogno dico alla squadra che ricominciamo a fare le fermate complete come il giorno precedente, quindi inizieremo a bagnare il capo e a spruzzare acqua nebulizzata addosso.
La prudenza non è mai troppa e quando poi ti prende il colpo di calore è troppo tardi.Questa corsa era troppo importante per noi,non potevamo permetterci il lusso di scivolare su una buccia di banana. C’è molto caldo e vedo dei concorrenti svenire, alcuni sulla strada  e altri tra le braccia dei loro aiutanti. Il calore è così intenso  che senza l’aiuto del nostro crew saremmo come delle foglie gialle appassite  che in autunno cadono a terra dalle piante,vuote e senza vita. E’ un’atmosfera irreale,ogni tanto nell’aria si sentono e si vedono i passaggi d’aerei militari che fanno delle esercitazioni anche a bassissima quota. Da lontano pure qualche bufera di sabbia nelle quali spero di non capitare perché l’utilizzo delle lentine a contatto mi danneggerebbe  non poco. Come non detto ,dopo qualche ora eccomi immerso in una di quelle tempeste. M’aiuto coprendomi il viso e camminando alla cieca per qualche centinaio di metri.
Finalmente dopo qualche peripezia giungiamo a Darwin dove ad attenderci c’è un nastro ci ricorda che siamo alla novantesima miglia. I miei assistenti mi danno l’ok per un riposo lungo dopo i tanti stop di soli cinque minuti. Mangio il solito formaggio con olive e pomodori e  mi stendo in macchina per tre quarti d’ora. M’addormento subito mentre i miei angeli custodi mettono a posto la roba nel minivan.


Dopo questa bella sosta proseguimmo verso il successivo riferimento, Lone Pine, punto dove l’ultima grande salita c’avrebbe portato al tanto agognato traguardo. Forse questo è il tratto dove ho sofferto di più. Un rettilineo lunghissimo,interminabile. C’è un cartello stradale che indica il numero di miglia che mancano alla destinazione; tengo allenata la mente calcolando i chilometri che percorro in base ai miei ristori. Attraversiamo la città fantasma di Keeler,che è lì chissà da quanto tempo senza vita in balia degli elementi meteo e dei predatori del deserto. Li,nel niente più assoluto ma di una bellezza estrema, sono messo a nudo,posso vedere tutto quello ho dentro. Una strada infinita, a perdita d’occhio.Inizio ad avere sonno.Debra fa i miracoli per tenermi sveglio ma è molto dura.Quella strada così dritta è una lancia conficcata nel mio fianco. Barcollo,cerco di resistere ma è dura. Dovrebbe mancare poco ma non ci sono indicazioni,è terribile.
Mi fermo ancora qualche attimo,mi dicono che quello che si vede in lontananza è il monte Whitney, il traguardo. Mi riprendo e anche bene. Erano appena le 18 e dopo un pò Debra si staccherà con la macchina d’appoggio per andare all’albergo che avevamo  prenotato dopo l’arrivo ma che dista un’ottantina di chilometri dal portale del monte Whitney; così facendo quando arriveremo nella nottata non dovremo fare il check in ma solo andare a riposare.Ecco un cartello, Welcome to Lone Pine,“Bello,ma dov’è’ ?”, mi chiedevo. Da lontano una strada  con delle luci e pensai “Una volta arrivato lì  inizierà la salita”. Illusione,pia illusione. Rick che nel frattempo si era unito a me, dice che prima di fare l’ultima scalata, dovremmo  ancora “correre” altre due miglia e mezza. “ Mamma mia “,esclamo. Con un pò di rabbia e trepidazione c’incamminiamo . E’ ormai buio ma siamo arrivati in paese,si aggrega a noi anche Andrea che conoscendomi meglio di tutti m’avrebbe dovuto accompagnare nel momento più difficile della corsa.
Dopo un pò il britannico va a riposare ma l’italiano però è stanco glielo leggo in viso e anche se io lo fossi più di lui cercavo di spronarlo,la macchina era leggermente più avanti e qualcuno gli avrebbe dato il cambio. Ormai facciamo i conti del nostro orario d’arrivo e mostrando una certa sicurezza insieme ad una grande positività che è giusto trasmettere a chi ha creduto in te gli dico che saremo al portale del monte Withney alle due. La strada tra un pò inizierà a salire si andrà dai 1130m ai 2550m,praticamente sarà quasi come andare sullo Stelvio. Kyndra si prepara per affrontare con me il primo miglio di salita anche se non era programmata la sua presenza a quel punto. Una fortuna per il parmigiano perché avrà modo di riposare. Dopo qualche chilometro Andrea vuole ritornare in pista ma la canadese insiste nel proseguire.Inizio ad avere molto freddo. La nord americana comincia  a spogliarsi dei suoi indumenti e me li passa,le ripeto d’avere i brividi.Mi abbraccia cercando di trasmettere il suo calore al mio corpo. Non so quante volte ripeto:” Mamma mia,mamma mia”. Saliamo,saliamo ancora e l’emiliano smania dalla voglia di mettersi al mio fianco. Kyndra stoicamente gli dice che vuole stare con me ancora per un altro miglio. Ecco l’italiano,io inizio a stare bene e corro nonostante le ore,i chilometri e la pendenza. Vedo però il mio amico in sofferenza,è cotto ed è in crisi. Dopo qualche chilometro abbastanza veloce ritorna stoicamente la canadese. Ormai manca non molto circa diecimila metri, quel testone del parmigiano cerca di stare con me per darmi man forte ma si vede anche al buio che ormai è stanchissimo.Rick prende in mano la situazione e gli intima di andare a dormire. Penseranno loro a portarmi su fin quasi alla fine dove poi tutti loro si staccheranno facendoci arrivare insieme. Debra,Kyndra e Rick iniziano ad alternarsi e alla fine ecco Andrea,ultimi metri.Mi da la cresta fucsia da mettere all’arrivo e le bandiere da sventolare. Mi dice:” Siamo arrivati,ormai siamo su,è fatta!!! “ . Gli rispondo :” Quando passeremo il banner con la scritta Badwater Ultramarathon,allora si che avremo questa certezza”. Vediamo una macchina che scende dalla montagna,è Paolo Bucci e la sua squadra. Gli faccio i complimenti. Lui è distrutto,il suo equipaggio è massacrato. Mi dice due parole con le lacrime agli occhi:”E’ stata dura,la più dura degli ultimi anni”… Poi se ne vanno non prima d’essersi complimentati con noi.  Un atleta è davanti a noi,faccio cenno ai miei di non superarlo,non sarebbe giusto,voglio fargli godere quel momento insieme alla sua squadra e poi, che senso avrebbe? Mi fermo e gli faccio oltrepassare la finish line. Io sono li con Andrea ma mancano gli altri che stanno parcheggiando le auto.Gli organizzatori mi vedono fermo e mi dicono di avanzare,io non ci penso neanche. “ Andrea,noi non andiamo da nessuna parte,aspettiamo tutti,dovessi rimanere qui anche le otto ore  che mancano alla chiusura della gara. Abbiamo fatto questo viaggio insieme e uniti voglio che arriviamo”. Aspetto dieci minuti,ci siamo,ci guardiamo in faccia compiaciuti. Si prendono per mano e vogliono che io sia un passo davanti a loro.

Si ferma il mondo,piango di una gioia irrefrenabile ma non dimentico la dedica più importante nel momento topico. Questa corsa l’ho dedicata a Simone Grassi un amico ultramaratoneta che proprio nel giorno più bello della mia vita,quando mi arrivò la mail d’accettazione alla gara,qualche ora prima aveva deciso d’andarsene. Tagliamo il traguardo dopo duecentodiciassette chilometri e poco più di quaranta ore di marcia. Abbraccio tutti i componenti del mio crew uno ad uno e li ringrazio Facciamo le foto con l’organizzatore e immancabilmente Andrea sbaglia a mostrare l’italico vessillo nonostante  i tanti avvertimenti.






Ancora un pò,riprendiamo le macchine e ci dirigiamo verso l’albergo. Sono  triste perché arrivare al traguardo della Badwater è come aver fatto un viaggio e quel viaggio era finito. Mi ritornava alla mente il documentario “Running on the sun” che tante volte avevo visto per prepararmi alla gara e rimembravo ancora quella confusione ,quell’ansia e quell’incredulità che avevo. Non credevo che delle persone potessero fare una cosa del genere senza morire.Noi c’eravamo riusciti.



Il giorno dopo a Los Angeles,siamo andati al mare e da quel momento fino ancora a tutt’oggi sono trattato come un re. Ma voglio scrivere un’ultima cosa: i veri eroi sono stati  Debra,Kyndra,Andrea e Rick,il mio equipaggio. Loro hanno fatto tutto il lavoro mettendomi nella condizione di non pensare a nient’altro che non fosse la corsa. Voglio ringraziare alla fine la mia amica Ketty che sapendo del nostro arrivo a Bologna è venuta a festeggiarmi in aeroporto e anche  Kicci anche lui presente allo scalo felsineo.
Un grazie anche a chi ha reso possibile questo viaggio: Coopselios,Ginetto Sport,The Way To Happiness ed il suo presidente Caralyn Percy,La Via della Felicità e Scylla Larocca,Sport Reggio e il comune di Reggio Emilia che ha patrocinato l'iniziativa.Un ringraziamento speciale va a  Paolo Bucci,sempre prodigo di consigli nei mesi precedenti la gara.












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